IV Conferenza Italiana dell’Animazione
IL FUTURO DEL'ANIMAZIONE: MEMORIE DAL SOTTOSUOLO DI UNA GIORNATA SUI NAVIGLI - Marco Galli - Chiasso (CH)

Premessa: quello che segue è la traccia di un testo nato per essere raccontato in pochi minuti, come stimolo alla discussione e non di un testo scritto. Ho dato qualche colpo alla carrozzeria, ma mi scuso per il sentimento di approssimazione che comunque ne risulta.

Il futuro dell'animazione ha radici nel presente: vale la pena di considerare alcuni cambiamenti sociodemografici che riguardano gli ambiti tradizionali dell’animazione (case anziani, centri giovanili, quartiere) e che potrebbero favorire lo sviluppo dell’animazione: “Vecchi sempre più vecchi, giovani sempre più giovani, figli sempre più unici, stranieri sempre più stranieri, vicini sempre più …lontani”. Assistiamo ad  una dilatazione della socialità, in termini sportivi uno stiramento,  e ad una frammentazione delle categorie sociali. Sempre meno nascono contatti tra persone di categorie diverse. Quanti stranieri nella cerchia delle nostre conoscenze prossime?

In teoria: un contesto che dovrebbe favorire l’emersione dell’animazione o almeno dove l’animazione potrebbe svolgere un ruolo importante di “collante sociale” e di compartecipazione.

Perché la miccia dell'animazione non s'accende, perché l’animazione non decolla? (perdonatemi le metafore d’alemiane)

Due chiavi di lettura (non esaustive):

1. Vediamo da che cosa è occupato il tempo libero? Quali fattori coabitano il tempo libero con l’animazione e che ci fanno dire che di tempo libero non ne resta più così tanto?  Fattori che ci obbligano ad una ridefinizione dell’animazione, con potenzialità anche positive e rischi di dipendenza. “Surrogati” dell’animazione? Ne ho individuati quattro, ma ce ne sarebbero molti di più…

a)      Colonizzazione del tempo libero da quello programmato (florilegio di associazioni, corsi di ballo latino, atelier espressivi, cristalloterapia, ecc.): stress da agenda che ci rincorre anche dopo il lavoro, fenomeno delle mamme-taxi, turisti incatenati ai tracciati delle guide turistiche che si sostituiscono all’album dei ricordi e che tolgono spontaneità al viaggio.

b)      Boom degli eventi (festival, rassegne eno-gastronomiche, del ferromodellismo): “Siamo tutti organizzatori”. Più organizzatori che pubblico. Il tempo libero diventa uno slalom; ciò che ci fa dire che la società non è mai stata così animata.

c)       Esplosione delle telecomunicazioni (internet, messaggi-sms, cellulari). Comunicazione fatica per il semiologo: la testimonianza della comunicazione (“tim dunque sono”) è più importante del messaggio. Interessante studiare l’influenza dell’accresciuta mobilità virtuale sulla mobilità fisica. La comunicazione tra giovani che diventa un continuo monitorarsi.

d)      La diffusione della cultura del “wellness” (in senso lato). Centri di benessere, saune romano-irlandesi, breakfast in fattoria, budda bar): animazione d’”ambienti” confortevoli, sin troppo. Il tempo libero sprofondato in una grande vellutata anestesia.

Il fatto è che tutti queste animazioni hanno un costo perché appartengono al mercato: il target per l’animazione (p.e. centro giovanile) si restringe a chi non si può permettere altro: vecchi, stranieri e pre-adolescenti (poveri). L’animazione “coatta”.

2. Un’altra chiave di lettura è la predominanza di una coscienza politica latente comune a tutto il sistema, strano in un paese dove la Presidenza del Consiglio è nelle mani di un…animatore (n.d.r. perdonatemi la battuta venutami in treno, al ritorno dal convegno sfogliando Repubblica). L’animazione è sempre stata fraintesa: confusa con la prevenzione, l’animazione può servire per combattere il disagio (mai in termini positivi: costruire una società migliore, dei cittadini più consapevoli e responsabili). Oppure, in tempi di magra come questi, è un lusso, un optional: la prima cosa che viene tagliata al momento di comprimere i budget. La coscienza politica dell’animazione è latente a tutti i livelli: politici, società, mass media e, non di rado, tra gli stessi animatori.

L’animatore va dove il bisogno emerge. L’animatore è un “pompiere” che viene chiamato dove c’è l’incendio (vecchia logica). È possibile passare ad una concezione che veda nell’animatore una “levatrice”, chiamata dove nuove realtà sociali si affacciano? Non calata dall’alto, ma richiesta dal basso. Utopia blues?

Quali sono gli ambiti dove si riscontra un certo fermento e la figura dell’animatore potrebbe fornire non solo un contributo fondamentale, ma anche magari…rigenerarsi?

1. L’animazione interculturale che segni il passaggio da una società multiculturale ad una interculturale; dove la relazione con gli stranieri diventi una possibilità di interrogarsi sulla relazione con la propria, personale, parte altra di noi stessi e dove la relazione con gli stranieri non sia vista come qualcosa che disintegri la società, ma che crei nuove alleanze, arricchimento reciproco. (N.d.r. chi fosse interessato al progetto “Chiasso, culture in movimento”, può richiedere la documentazione a marco.galli@chiasso.ch)

5.2 L’animazione civile (animazione no global): emersione di forum sociali locali, maggiore impegno, alleanze intergenerazionali, laiche-religiose. In questo contesto di fermento sociale e di impegno civile. È necessario interrogarsi sul ruolo che potrebbero avere gli animatori (o l’animazione) all’interno del movimento dei movimenti. L’attenzione sui processi, sulle dinamiche relazionali, potrebbero essere uno strumento utile di alimentazione per il movimento. Al contempo il ricalarsi nell’impegno civico potrebbe ridare nuova linfa e motivazione (centratura) al mondo dell’animazione.

Entrambi gli ambiti dell’animazione portano verso una nuova definizione di cittadinanza: più consapevole e più condivisa.

Quali sono allora i significati possibili dell’animazione (per il futuro, ma i cui tratti sono riconoscibili già oggi):

Non siamo mai stati così animati, così indaffarati, così organizzatori, con degli obiettivi così misurabili, così monitorati….come affetti da una Sindrome di Forrest Gump. Facciamo un sacco di cose, ma senza sapere perché, con poca consapevolezza. Le cose ci piacciono non perché ci piacciono veramente, ma perché ci devono piacere, perché ci piace l’immagine, l’idea di noi alle prese con queste cose (p.e. andiamo a sentire Philip Glass non perché ci piace veramente, ma perché ci piace l’idea di noi che andiamo ad un concerto di Philip Glass). Inoltre  come considerare il “boom” dei programmi televisivi di espressione? Da “C’è posta per te” al “Grande Fratello”, da “Saranno Famosi” a “Superstar”: non ci si è mai espressi così tanto. Ancora una volta si tratta però più dell’espressione di quello che vorremmo apparire che dei nostri bisogni profondi, di quello che siamo e che, purtroppo per alcuni, saremo. Chi ha bisogno dell’animazione quando può andare dalla De Filippi? L’accento va posto sul “saper essere”, sull’aiutarci a riconoscere i veri bisogni (sempre che sia ancora possibile…). L’animazione attuale non deve ridursi ad un “far fare”, ma deve aiutarci a condividere e  riproporre la domanda costitutiva di ogni azione sociale: cosa stiamo facendo e perché?

In tempi dove tutto sembra possibile e …scontato. L’animazione può avere un ruolo di motivazione, saper trasmettere entusiasmo. Conta l’esempio, far capire che l’impossibile è possibile (es. integrazione tra stranieri e popolazione locale, mi ripeto), recuperare il “senso del reale” di cui parlava Musil. Passo a passo, con idee che diventano progetti e viceversa. In un’epoca di terrorismo dell’informazione, l’animazione potrebbe essere chiamata ad aiutarci a non avere paura. Passare da una situazione di sclerosi e chiusura su sé stessi, ad una di apertura consapevole agli altri, di costruzione di contatti sociali, di ritessitura quotidiana, faticosa, condivisa del tessuto sociale sfilacciato e sintetico.

Chiudo con Calvino (da “Le Città Insibili”): “Anche a Rissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”.

Ho ancora la speranza che l’animazione possa aiutarci a “disegnare nuove rapide figure” e a renderci non so se meno infelici, ma forse più autentici.

P.S. Nota al rientro: l’animazione non conta nulla per invertire un trend che ci sta portando sempre più nel trash, letteralmente, in quanto tra non molto sarà tutto un’immensa sorridente spazzatura. Non saranno in molti a farne un lavoro. Si pensava che potesse essere rinnovatrice se non rivoluzionaria, ci siamo sbagliati. Ma come antivirus – glocale - può ancora funzionare. L’animazione come metodo e pro-fessione ha ancora senso, se non altro, nel cercare di condividere frammenti di significato e d’umanità, magari, anche solo per qualche ora in uno scantinato lungo un naviglio asciutto. Quando la rosa non ci sarà più, ce ne rimarrà almeno il colore, il profumo…il nome (Eco’s).